Residenzialità diffusa e inclusione sociale: intervista a Ilaria Avoni, Presidente di “Piazza Grande”


10 Ottobre 2023|6 Minuti

La gestione di alloggi di edilizia residenziale pubblica e sociale è a tutti gli effetti un fatto relazionale che richiede una attenzione al rapporto con gli inquilini e le comunità di abitanti. ACER Bologna con il progetto “ACER Sociale” ha intensificato le collaborazioni con soggetti del privato sociale e dell’associazionismo interessati al tema dell’abitare collaborativo e con finalità di inclusione sociale. Ne parliamo con Ilaria Avoni presidente di Piazza Grande, cooperativa sociale che da tempo si occupa della gestione sociale di alloggi destinati all’inserimento sociale e abitativo di persone fragili secondo i principi dell’Housing First

Quanto è centrale oggi il tema della residenzialità diffusa in rapporto a finalità di inclusione sociale di soggetti fragili? Come nasce e si sviluppa questa attenzione all’abitare?

Il tema della residenzialità diffusa è centrale nei nostri progetti di inserimento abitativo di adulti in grave emarginazione adulta, famiglie in emergenza abitativa e migranti: è infatti uno dei principi del modello Housing First a cui ci ispiriamo. L’accoglienza diffusa è lo strumento scelto per affermare il diritto all’abitare e ridurre il rischio di ghettizzazione, permettendo un lavoro di integrazione sociale nel contesto abitativo e nel quartiere.

Intravedi una contrapposizione tra le forme di residenzialità istituzionalizzata e quella che si basa sugli alloggi ordinari? Quali sono i vantaggi di una politica di inclusione sociale realizzata tramite l’abitazione “ordinaria” pubblica o privata?

L’accoglienza istituzionalizzata ordinaria e di bassa soglia è fatta di “soglie” per quanto basse: orari di ingresso e di uscita, convivenza forzata e non scelta, temporalità dell’accoglienza, scarsa possibilità di personalizzazione degli spazi e non sempre prevede la possibilità di uso cucina. Il rischio effetto ghetto che si somma a quello di istituzionalizzazione e di conseguenza cronicizzazione con ingressi e uscite che si ripetono è purtroppo un’evidenza nonostante il lavoro degli operatori e delle operatrici e lo sviluppo di una sempre più diffusa attenzione al lavoro di comunità. La dimensione della casa permette invece di riconoscersi ed essere riconosciuto come cittadino e cittadina, restituisce un potere di scelta rispetto agli spazi, al cibo, all’uso del tempo, risponde non solo al bisogno di un tetto, ma a quello di casa, spazio intimo ma che ci permette di aprirci alla relazione.

Perché è così importante la casa?

In tutti i nostri progetti la casa è il punto di partenza per un lavoro di accompagnamento a 360 gradi delle persone inserite (gestione casa e convivenza, inclusione nel territorio, salute, lavoro, socialità…). I percorsi non sono standardizzati, ma costruiti a partire dai bisogni e dai desideri delle persone e portati avanti insieme alle persone e al servizio di presa in carico.

Quali sono i servizi essenziali che è necessario attivare in progetti di residenzialità diffusa? Ritenete siano importanti le forme di partnership con altre organizzazioni di welfare pubbliche e private?

L’accompagnamento della persona nel suo percorso di riconoscimento e intervento sui bisogni rispetto a casa, lavoro e socialità non si esauriscono nel supporto all’abitare e al supporto manutentivo e amministrativo ed educativo o nella cura delle relazioni di vicinato, ma devono prevedere l’accompagnamento e l’aggancio ai servizi del territorio e alle diverse realtà presenti nel quartiere che offrono occasioni di incontro e socialità. Tra le collaborazioni più interessanti citiamo il progetto sperimentale di integrazione sociosanitaria che ha visto l’equipe di Hf lavorare fianco a fianco con uno dei CSM del territorio: oltre ad equipe integrate è stato possibile svolgere insieme al personale infermieristico, domiciliari negli appartamenti in modo da rendere meno impersonale e lontano il servizio specialistico.

In che modo all’interno dei vostri progetti viene attivata, sostenuta, stimolata la capacitazione individuale e la dimensione collaborativa tra gli abitanti?

Il modello capacitante informa i nostri progetti perché la persona è riconosciuta come protagonista del percorso che viene attivato. Vengono rispettati i suoi bisogni e i suoi tempi. Gli operatori non impongono regole all’interno degli appartamenti ma facilitano nelle assemblee di appartamento l’emersione di bisogni, di problemi e conflitti e accompagnano le persone ad affrontarli e gestirli e a costruire le regole della convivenza.

Tenuto conto che una casa è sempre inserita in un contesto territoriale più ampio, in che modo affrontate il tema del rapporto con la comunità di luogo, il contesto abitativo nel suo complesso, il quartiere?

Noi partiamo dal presupposto che la grave emarginazione non è un problema individuale, l’esito funesto di mancanze e fragilità personali, bensì un problema sociale che riguarda un sistema economico e sociale costruito sulle disuguaglianze. E’ fondamentale quindi prendere in considerazione entrambi i lati della medaglia e quindi accompagnare la persona senza dimora e allo stesso tempo lavorare sul contesto territoriale. Il lavoro di comunità è forse la parte più sfidante e difficile per le equipe dei progetti di inserimento abitativo.